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Il buio oltre la siepe

Con l’arrivo di marzo finalmente le giornate si allungano in modo sensibile e uscendo la mattina presto si può beneficiare di un po’ di luce e di temperature non troppo rigide così che, nelle consuete uscite al parco nord, è tangibile ogni giorno il progressivo e inarrestabile risveglio della natura che invita a ripercorrere e riscoprire tanti tratti già conosciuti nelle veste invernale, ammantati di brine e nebbie. Uno degli angoli del parco per me più apprezzabili paesaggisticamente è collocato appena oltre uno dei primi accessi disponibili provenendo dal ponte a fronte del grande complesso scolastico dell’ITC. Si tratta di una zona con prati di forme irregolari intorno ad un vialetto alberato che si sviluppa in una esse data da due ampi archi congiunti a formare un caratteristico percorso il cui evidente fine non è collegare due punti nel modo più diretto ma proprio quello del divagare fine a se stesso. Dimenticando le trafficate direttrici stradali di collegamento tra i vari comuni a nord di Milano, a poche centinaia di metri si ha, imboccando l’accesso a questo vialetto da una pista ciclabile, l’opportunità di entrare senza passaggi intermedi nel lembo di un’ideale campagna gallese, isolata dal mondo circostante per tramite di una fitta boscaglia da un lato dell’arco e da alti cespugli dall’altro.


Solo stamattina, con le prime luci che illuminavano germogli verdi in procinto di esplodere per ogni dove, sono tornato a percorrerlo dopo relativamente molto tempo e non certo che me ne fossi dimenticata l’esistenza mentre quasi ogni giorno, transitando per la ciclabile, ne superavo l’accesso alla mia destra individuandolo inequivocabilmente con la coda dell’occhio. Precisamente è dalla mattina del 27 dicembre dello scorso anno che ignoro scientemente quella deviazione ed il suo ondulato tragitto successivo. Era stata una di quelle giornate in cui Milano, beneficiando degli effetti di un intenso vento di phoen, trova una tregua al frequente e soffocante ristagnare di arie umide nell’inverno. Appena aprii la porta muovendo un passo all’esterno, avvertii istantaneamente il contrasto non coll’interno ma con l’aria che avevo lasciato fuori ieri sera, come se fossi sceso da un volo transcontinentale partendo dall’inverno padano per atterrare nel tepore di aria ben diversa, secca e profumata di montagne. Il vento non doveva essere montato da molto poiché qua e là, da giardinetti condominiali o da vicoli più riparati, provenivano ancora fiotti di aria fredda e umida a rimescolarsi col flusso dominante e tutta la pavimentazione riteneva il gelo cumulato precedente generando una sorta di termoclino ondeggiante tra l’altezza dei polpacci e le ginocchia. Quest’effetto da corrente fluviale ribollente si accentuò in prossimità del parco, le cui ampie zone boscate, respirando come spugne impregnate, stavano rilasciando progressivamente, nell’ultima parte di una notte dal cielo finalmente brillante di stelle e di una intensa luna, grandi masse d’aria contrastanti con quelle trasportate dal vento. Fu senza esitazione alcuna che mi immersi repentinamente con una curva secca in velocità, proprio come fossi un subacqueo che entra nell’acqua del mare con una capovolta da un gommone, verso il profondo del parco attraverso il primo settore di cui, strizzando gli occhi ancora abituati all’illuminazione stradale, apprezzavo ancora una volta la singolare amenità. Qualche brivido al subitaneo calo di temperature non pregiudicava la gratificazione del bagno di sensazioni rinfrancanti della mia corsa solitaria, dando anzi un ulteriore impulso al risveglio dei sensi, deliziati dall’eccezionale profumo dell’aria e dal rumore del vento tra i rami. Pochi istanti, alcune decine di metri, già tanto lontano da tracce del contesto urbano e repentinamente una sola occhiata appena avanti alla mia destra bruscamente infranse ogni positiva attitudine del mio animo. Forse feci una leggera sbandata per l’esitazione ma perseverai sostenendo la medesima direzione e passo.
Un nuovo sguardo quasi faticoso confermò la percezione già rilevata ma non ancora assorbita e accettata nel suo silenzioso fragore: ad una dozzina di metri da me, sul limitare del bosco stavano due sagome, due profili di uomini in piedi ed  immobili nell’ombra della pallida luce della luna. Guardai avanti la strada continuando a correre, pur andando poco più vicino a loro nella curva che piegava verso il lato opposto al boschetto e poi rivolsi una seconda volta lo sguardo a quel punto, sorgente di improvviso, inaspettato sgomento. Non osai indugiare che un altro istante, mai uno sguardo troppo insistito avesse potuto scuotere quelle presenze inquietanti, le quali stavano confermando la loro stridente presenza. Nessun volto riuscii a cogliere, nessuna precisa fattezza, solo un leggero moto di una delle due sagome, consistito in un passo ad avvicinarsi ad un metro dall’altra, che pareva voltata verso l’interno della macchia. Il cuore accelerò i battiti ancora prima che aumentassi gradatamente la frequenza dei passi, senza voltarmi, trascinando dietro l’incertezza di chi o cosa avessi scorto e il dubbio che occhi da me non visti mi stessero seguendo. Scosso dal vento forse a quel punto avrei fatto meglio a tirare dritto e riprendere la ciclabile per proseguire in zone illuminate ed in qualche misura frequentate da rari passaggi mattinieri. Invece prevalse in me la volontà di vincere o cercare di dominare la eccezionale e crescente sensazione di paura, che mi trovavo inaspettatamente ad affrontare piuttosto che la fatica e altri precisi segnali fisici come avviene solitamente nella corse più intense. Così, alla fine del percorso obbligato del vialetto, presi una decisa svolta sulla destra, immettendomi in un lungo e stretto viale privato della luminosità del cielo da alberature ad alto fusto, puntando dritto verso il profondo di questa propaggine di parco.


Man mano che lo percorrevo ad andatura sostenuta, cercando di non voltarmi indietro neanche col pensiero, tenevo puntato lo sguardo in avanti verso la fine del tunnel, dalle cui pareti oscure ad un paio di metri da me avrebbe potuto in ogni momento uscire qualunque essere, anche proprio quelle due ombre trasposte con moto soprannaturale, per sbarrarmi la strada con un solo balzo. Arrivato con il respiro affannato al limitare della ampia radura seguente, decisi di attraversarla correndo sull’erba, lontano da ogni albero o cespuglio, pregustando il sollievo di poter disporre una visibilità estesa tutt’intorno a me. Quando fui nel bel mezzo del prato però mi accorsi di come io, illuminato in pieno da luna scintillante nell’aria tersa come un proiettore su un fuggiasco, fossi assolutamente visibile da qualunque punto della boscaglia circostante e, per contro, dalla mia posizione non riuscissi a distinguere alcuna precisa forma e via di uscita al limitare dalla radura stessa. Sentendo mille occhi su di me e approssimandosi la fine del prato, accelerai come per saltare oltre un immaginaria barriera a riappoggiare i piedi su viali asfaltati. Di slancio e ancora non pago, con una certa inflessibile testardaggine o con l’istinto della routine, sdegnai la via di uscita che mi si offriva a breve raggio, continuando per un vero e proprio sentiero, di suo tanto suggestivo con la luce del giorno quanto di per sé inquietante nell’oscurità prima del nascere del giorno. Terra battuta con foglie secche in decomposizione fanno normalmente di questo tratto in falsopiano un ottimo substrato per l’ammortizzazione dei passi in allenamento, ma l’assenza dell’accompagnamento del loro ritmico risuonare valse nell’occasione ad esaltare ancora più il sinistro gracchiare di decine di corvi in attesa del sole nel fitto prospiciente. La visione repentina a breve distanze di un tronco spezzato ricoperto di muschio mi fece riandare con un tuffo al cuore ai pochi fotogrammi rimasti impressionati di quelle due indistinte sagome e la corsa, ammisi quindi a me stesso, era ormai degenerata a fuga da qualcosa di immanente che mai avrei potuto distanziare: la paura del buio, della solitudine, dei mostri, quei virus dormienti che il più spavaldo degli uomini porta nel più recondito angolo del suo animo. L’ambiente in cui tante volte mi ero immerso armonicamente senza nulla temere perché ne facevo parte a pieno titolo, come scosso da una reazione chimica catalizzata dal vento caldo, sembrava un organismo determinato ad isolarmi con i suoi anticorpi e le due buie figure, gli esseri immanenti, che ad ogni istante avrebbero potuto ripresentarsi per chiudere la mia inutile fuga. La soluzione, ragionai con la traballante lucidità figlia delle incerte prospettive, di passi su un nuovo stretto sentiero accidentato, sarebbe stata, a completamento del giro usuale di dodici chilometri, ritornare con le luci del giorno incipiente nel luogo della ipotetica apparizione apprezzando infine e con certezza l’assenza di alcunché non fossero cespugli, tronchi e fronde spoglie. Così, dopo essere transitato di fronte al già animato centro dell’Ente Parco ed essermi rinfrancato con la presenza di umani intenti nelle loro plausibili faccende e spostamenti, mi accinsi a percorrere a ritroso quel fatidico vialetto alberato ormai discretamente illuminato dall’aurora. Già nella prima parte dell’itinerario che piegava secondo il mio senso di marcia verso sinistra, in effetti deviando dall’asse verso il punto obiettivo, rallentai la frequenza dei passi e inconsciamente silenziai la respirazione, contemporaneamente focalizzando i sensi in un settore univoco sulla destra avanti a me. Cinguettare dei passeri si è sostituito al cupo gracchiare dei corvi e dopo un centinaio di metri il vialetto convertì la sua piega a destra srotolando lentamente, dietro l’angolo dell’alberatura, la boscaglia che fa barriera rispetto alla ciclabile esterna, luogo del precedente avvistamento reso labile dalle emozioni che esso stesso aveva suscitato. I miei passi e i miei battiti cardiaci continuavano ad essere il solo sottofondo percepibile mentre sulla vista e la decodificazione dei segnali da essa percepiti era concentrata ogni energia e fibra, come per una vedetta di guardia sulla rotta degli iceberg. Tutto vuoto, tutto libero, ancora qualche passo e la visuale sarà completa, ancora pochi passi e nient’altro che spoglie acacie, fusti d’albero, rami contorti e spogli. Ormai ero nella parte finale dell’emiciclo ancora pieno di pensieri e dubbi irrisolti, sempre guardando avanti, avanti, intorno e nella boscaglia ora alla mia sinistra. Ma, orrore, eccole, due sagome nitide, spostate poco più nel profondo, giù per un qualche sentierino ritagliato tra le ramaglie, come se il vento le avesse spostate, ancora ritte immobili ad una ventina di metri dal sentiero e da me. Evitando di fermarmi lanciai più volte lo sguardo con disgusto e incredulità a quelle figure nero vestite assurdamente fisse e silenti nella macchia. Non un volto, non un connotato potei ritrarre dai due profili incappucciati e rientrando in pochi minuti nella dimensione parallela del mondo normale, quello oltre le siepi dove le persone stavano scendendo da un tram, andando a scuola al lavoro, a comprare il pane caldo o a bere il caffè al bar, facendo rumori e parlando provai senza esito a spiegare a me stesso cosa avessi visto e a dare un perché razionale della loro sbagliata presenza. Questioni irrisolte e sconcertanti cosa fossero quelle sagome ferme e mute nel buio per non meno di sessanta minuti, lì in quel luogo tanto vicino alla metropoli pulsante, tanto lontano dalla comunità sociale e nondimeno quanto le paure più semplici e profonde possano salire a galla da acque tranquille con la forza dell’ignoto.

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