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La scighera


Poi, dopo lo sai perché, o almeno così speri vestendoti, con la cortina bianca della scighera, la nebbia lombarda, fuori della finestra ad occultare la assopita Milano domenicale.
 
In strada sono incerti persino il garmin a trovare il satellite e le gambe a prendere una direzione, che poi è la solita, giù verso il naviglio dove il pilota automatico si innesta in un attimo e si tratta di capire non come lasciare indietro il torpore della notte ma perché iniziare il nuovo giorno così  traumaticamente.
Con il freddo e con l’umido che penetrano la sottile barriera dei vestiti aderenti, raggiungendo  appena dopo quella del viso la pelle delle gambe, quella del torace, delle braccia e del collo, ci vogliono non meno di due chilometri, una decina di minuti, solo per avere una risposta dai muscoli e dal cuore, sei in movimento, anche oggi si vive.
I passi seguono i passi guidando gli occhi alla ricerca del percorso parallelo alla via d’acqua intenta a sbuffare vapore sull’alzaia, gli edifici si diradano,  l’orizzonte si appiattisce su un telo bianco solidale al cielo.
E’ l’impatto ravvicinato dei piedi sull’asfalto a dire che passando i minuti progrediscono i metri ed i chilometri, mentre il pensiero si distende in uno spazio dai confini sciolti.
Allora guardare avanti la stessa strada è come guardare indietro la scia di una nave sul mare, osservare un solco che si allarga su un piano liquido.
Aprendo meglio gli occhi ci vedi poi, dopo, dopo ancora riemergere e galleggiare frammenti, rottami sparsi, pezzi indistinti rimestati nell'acqua ribollente. Sono sogni, ricordi, progetti o desideri portati a galla per un istante e subito dispersi nella corrente, fino a che sulla via del ritorno riappare sull’asfalto al lato della banchina la striscia bianca che porta dritto fino a casa, dove la nebbia non sopravvive tra solide mura di fitti palazzi.
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