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Due maratone in una

-          Un week end impegnato dal sabato mattina alla domenica pomeriggio per una corsa e neanche correre, ma perché?
-         Amo l'ambiente della corsa e respirare l’energia che sprigiona. Dentro alla corsa dei ragazzi e alla staffetta in questa primavera di mia vacazione dalla maratona, raccolgo un’occasione di partecipare da una prospettiva diversa ritornando anche un po' del tanto che ho ricevuto.


Fa freddo alle otto fermo reggendo la bicicletta ad aspettare la partenza e il primo staffettista cui aprire la strada.
Qualche brivido vedendo i maratoneti entrare nelle griglie carichi di aspettative, concentrazione, paure, esaltazione e tensione e i top runner scalpitare scaldandosi davanti a tutti.
Partita la prima ondata di maratoneti, ancora minuti di attesa poi si muovono gli staffettisti come la piena di un fiume, verso di me, verso la prima curva e la salitella dei bastioni, le moto dei vigili con le sirene in testa e adesso parto in piedi sui pedali voltandomi frequentemente indietro per prendere le misure, inserendomi finalmente al mio posto assegnato, ad aprire l’avanguardia della relay marathon.
Sono quattro giovani atleti vicini ad aspirare aria, pompare sangue forte, spingere indietro la strada e avanti me, le moto e una macchina della organizzazione, con la strada ancora libera dalle retroguardie della maratona, sento i loro passi leggeri e la loro respirazione impegnata appena alle mie spalle e no, amico mio purtroppo non posso farti da pacer e darti i 3’ e 20’’ al chilometro che mi chiedi.
Presto i primi degli ultimi maratoneti sono raggiunti, già attardati e già mangiato in pochi chilometri nella nuova Milano dei grattacieli il vantaggio nella tempistica di partenza.
Falcate ancora potenti e frequenti, le sento vicine e mi giro a guardare gambe e braccia sincronizzati e volti contratti.
Entrati nel centro in piedi sui pedali odio il pavé di via Manzoni, lo detestano le mie braccia come i raggi delle ruote.
Non c’è più la macchina davanti, si comincia a soffiare nel fischietto stretto tra le labbra per chiedere strada ai sempre più frequenti slow runners, cui intimamente chiedo perdono a tanta invadenza in sorpassi al doppio della loro velocità; il vigile motociclista approva e anche lui mi lascia all’imbocco delle strette corsie del primo cambio.
Rilevato il testimone, uno solo è lo staffettista in testa alla gara dietro di me e iniziamo una lotta nella corrente del corpo viaggiante della maratona, a creare un varco col fischietto, traiettorie ondivaghe e scuse ripetute, come nei preistorici videogiochi in cui un astronave si faceva largo tra meteoriti ed ostacoli vari sempre più frequenti e ravvicinati, non distinguo più i passi dietro di me ed è difficile voltarmi di frequente per tenere distanze e ritmo in una maratona in cui ho male alle braccia ed alla faccia anziché alle gambe.
Solo verso il trentesimo chilometro i corridori sul percorso si diradano e torno a rilassarmi godendomi la bella progressione dell’ultimo atleta che lancio solissimo sul drittone dell’ultimo bastione di porta Venezia prima di svoltare verso il trionfale traguardo.
Vai butta fuori tutto e alza le braccia sul traguardo, no non hai dietro nessuno, goditi il momento!
Bello avervi visti campioni, ora noi ciclisti – accompagnatori si riparte per un nuovo giro nell’altro lato del cielo.
Ampi e vuoti viali e piazzali nel quartiere Bonola alla periferia nord ovest di Milano riempiti di un inatteso sole, su un marciapiede senza pedoni e senza macchine da fronteggiare, si attendono gli ultimi podisti oltre il cancello orario fissato al trentesimo chilometro come al confine con il new Mexico i superstiti di una fuga nel deserto.
Arriva e passa l’autobus che ha raccolto pochi ritirati e passa ancora un’ultima staffettista ben scortata da automedica e una mezza dozzina di vigili ciclisti.
Dividendoci, torno indietro con un compagno fino al precedente ristoro in quasi completo disarmo come la balera all’alba dopo la festa.
Nessuno più nella terra di nessuno, niente automobili, come negli altri 364 giorni dell’anno e niente corridori: si può risalire raggiungendo chi sta spendendo forze ormai al limite nell’intento di raggiungere un traguardo o forse un miraggio.
Gli ultimi staffettisti lasciati a recuperare prime frazioni lente risalgono lasciano presto il fondo della corsa e noi a dedicarci ai maratoneti alle prese con il muro dell’ultima decina di chilometri, il tempo limite della gara che si avvicina e forze che contemporaneamente svaniscono sovrastate da fatica e dolori.
Uomini certamente non al culmine della possibile forma atletica, come Alessandro che accosto in corso Sempione mentre trascina con affanno evidente nella respirazione e nel viso una corsa irrigidita ed affatto efficiente.
Gli parlo con garbo per saggiarne la lucidità che è piena, anche nella consapevolezza del calvario che sta affrontando con qualche chilo di troppo ed un allenamento non del tutto adeguato.
Lo convinco a camminare, senza fermarsi, per preservare quello che gli resta di gambe e polpacci in particolare prima del sopraggiungere di irrimediabili crampi.
Con qualche rozzo calcolo prevediamo possa teoricamente farcela a stare sotto le sei ore e trenta, constatando che si, marciando con costanza, le cose in effetti vanno meglio.
Poi ti offro da bere mi promette ed io lo ringrazio, in realtà più per la soddisfazione del sincero sorriso che gli esce tra le gote sudate.
Donne come Angela, alla sua prima maratona che, sul bastione dove ore fa avevo fatto spazio alla volata di un promettente agonista, incito con successo ad un finale di gioioso sprint verso Leja, appena più giovane antagonista con orgoglio dalla Cina, la cui bandiera porta dipinta sul viso. Chissà dove sarebbe Leja in pantaloncini e maglietta se non la avessi riacciuffata da un errata svolta laddove oramai il percorso era stato smantellato.
Qualche minuto più oltre e a qualche centinaio di metri dal traguardo i maturi atleti Adriano e Gabriele mi pregano di anticiparli all’arrivo chiedendo di tenere aperto il cronometraggio.
E così sarà, i tecnici scendono dalla scala con cui già si accingevano a smantellare il portale, e usano le mani piuttosto per applaudire mentre il Coordinatore Generale della corsa, meglio Deus ex Machina della corsa, medaglia gli ultimi come i primi.
Le corse non devono essere belle, devono essere stelle, illuminare le strade, far muovere la gente …
ognuno come gli pare


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