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Fuori tabella


Anche l'ultima tabella con la pianificazione di quindici settimane, ovvero i poco meno di quattro mesi dallo scorso dicembre al marzo appena passato, va in archivio dopo qualche giorno di abbandono su un tavolo tra riviste, estratti conto e bollette. Non contiene in effetti un programma particolarmente evoluto o strutturato ma è proprio questo che me l’ha fatta apprezzare e scegliere, avendo la possibilità più facilmente di interpretarla e adattarla alle esigenze contingenti, come uno spartito aperto ad esecuzioni con spazio ad un po’ di creatività da ripartire su circa mille chilometri totali, per correrne alla fine quarantadue d’un fiato.

Riscorrerne qualche casella è come rileggere casualmente pagine di un diario che ha segnato con una sua propria codifica l’inizio della maggior parte delle giornate di questo particolare inverno.
Così ad esempio balza all’occhio alla fine della prima settimana la licenza di una “R” come riposo sul giorno venticinque dicembre, altrimenti designato ad una prima uscita lunga da venticinque chilometri (che peraltro avrei svolto volentieri come in anni scorso per le vie deserte di Milano), oppure nel proseguo tentativi di incastro tra gare attese e allenamenti funzionali di per se non esattamente conciliabili come corse campestri di intensità e potenza verso corse lunghe di regolarità e resistenza.
Nel solco della tabella le giornate invernali da podista hanno preso avvio con uno spazio dedicato alla corsa dalle sei alle otto, classificate in uscite di fondo medio, ripetute, fartlek, progressivi e lunghi, scandite ognuna dalla propria casellina come per il calendario dell’avvento di infantile memoria, mentre le distinte vite professionali e familiari si sono succedute dalle 9 a.m., tramite lo spazio organizzativo da separata agenda di formato più canonico.
I due programmi o ritmiche di vita, alternate e separate come il giorno e la notte si sono scambiati con una forte osmosi influssi vicendevoli, l’una e l’altra inevitabilmente assorbendo energie nei propri spazi dedicati.
Mentre oggi l’agenda quotidiana va naturalmente avanti, la tabella podistica è ormai scaduta e, laddove il senso nel percorrerla giorno per giorno è stato quello dell’avvicinamento e dell’attesa, rivederla a posteriori ed in senso inverso, oltre richiamare ricordi è un utile disamina critica: storie di errori e momenti di difficoltà, come nella settimana di malattia, che oltre a debilitarmi in se ha segnato una serie di mancate sessioni funzionali alla progressione degli allenamenti successivi o le sconsiderate uscite collinari durante una trasferta lavorativa in Francia nella settimana a ridosso della maratona, inevitabilmente mal assorbite; storie di equilibri difficili ad esempio correndo cinque serie di ripetute da duemila metri prima dell’alba oltre riscaldamento e defaticamento, vivendo una giornata lavorativa di dieci ore, chiusa con un uscita a cena.
Ancora vedo tanti chilometri in quelle caselle ma non ne saprei definire la qualità o saprei più misurare scientemente il tempo impiegato con il metro dell’altro tempo, quello fatturato e quello relazionale.
Nella mia memoria quei momenti di corsa hanno una valenza tutta propria, imponderabile e non esprimibile in minuti ed ore perché appartenuti ad una dimensione singolare, fatta di sensazioni pure e di pensieri rivelati come sogni. La tabella nel suo asettico linguaggio mi dice di corse alternate sui quattrocento metri nel buio prima del giorno con il cuore che non riesce a scendere verso una soglia di confort  nelle strette pause in movimento, mi ricorda di corse lunghe ad esaurire le forze con gocce di sudore trasformate in cristalli di ghiaccio, di albe svelate nella nebbia, di silenzi con il solo eco della mia respirazione, del risuonare dei piedi contro l’asfalto in viali deserti, di pioggia fredda sulle braccia oltre la visiera del cappellino e di sfide della volontà con la materia del mio corpo.
Come ho potuto farlo? Meglio come ho potuto volerlo fare, ovvero in conclusione perché l’ho fatto, perché mi sono dato alla tabella?
Pensandoci bene non conosco migliore sintesi in risposta di quella di  Mark Renton.
Sentitela anche voi e capirete, anche se non avete mai corso negli ultimi dieci anni per più di venti metri per prendere l’autobus o nemmeno quelli, anche se non rinuncereste all’automobile per fare cinquecento metri, né uscireste di casa senza l’ombrello sotto la pioggia battente e pure, forse anche meglio, stando seduti davanti ad un computer completamente decontratti.
Perché dunque l’ho fatto e perché aspetterò con determinazione il prossimo ciclo in cui correre a tabella?
Mark dillo tu:
https://www.youtube.com/watch?v=ME1uyX4_V0w

Allora perché l'ho fatto? Potrei dare un milione di risposte tutte false. La verità è che sono cattivo, ma questo cambierà, io cambierò, è l'ultima volta che faccio cose come questa, metto la testa a posto, vado avanti, rigo dritto, scelgo la vita. Già adesso non vedo l'ora, diventerò esattamente come voi: il lavoro, la famiglia, il maxitelevisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l'apriscatole elettrico, buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d'ufficio, bravo a golf, l'auto lavata, tanti maglioni, natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai. Mark Renton - Trainspotting

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