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quel che resta del viaggio


Se il viaggio è “L’andare da un luogo ad altro luogo, per lo più distante, per diporto o per necessità, con un mezzo di trasporto privato o pubblico” la maratona è per me sicuramente un viaggio e non certamente breve in relazione al mezzo – le nude gambe –.
La maratona di Milano, questa maratona di Milano 2017, tra le altre maratone e come molte altre maratone, è peraltro un viaggio imperfetto, letteralmente un fantastico raggiro, in cui migliaia di viaggiatori – i maratoneti – partono da un preciso punto, rigorosamente segnato – la linea di partenza –, per arrivare, percorrendo la canonica distanza di 42.195 metri, in un altro punto anche esso rigorosamente segnato – la linea di arrivo – di fatto collocato a poche decine di metri dal primo.

La civiltà ha creato questa specie di viaggiatori, nominati atleti o sportivi, che al pari degli appartenenti all’altra razza figlia del progresso, i turisti, si muovono con grande dispendio di energie e non per strette necessità di sopravvivenza.

A conferma della qualifica, esclusa un élite di pochi eletti agonisti in competizione per la vittoria, la stragrande maggioranza dei maratoneti si approccia e compie il suo viaggio consapevole di avere negli altri atleti dei compagni, di viaggio appunto, piuttosto che avversari.

E dunque ecco una cartolina del mio ultimo viaggio (credits https://www.facebook.com/hrc.tivu) in un momento significativo al ventitreesimo chilometro, quando le cose cominciano a farsi serie e ci si trova ciascuno in compagnia di una più ristretta cerchia.



 

Nel caso si tratta di  Mieczyslaw, polacco, categoria SM45, raggiunto poco prima del passaggio di mezza maratona, che con un maschera di sofferenza e passo appesantito continuerà a dare il ritmo con ostinazione ancora per qualche chilometro fino a fermarsi in una propaggine del parco di Trenno vicino ad un albero. Porta ai piedi le mizuno wave ronin, un modello di scarpe che ho avuto anche io e che di tanto in tanto rievoco essendo uscite di produzione quattro anni fa. Lo davo per spacciato considerandone spietatamente la condizione esteriore invece, indistruttibile come le sue scarpe, arriverà al traguardo in poco più di tre ore.

Segue me, che sogghigno non proprio in modo convincente all’amico reporter Stefano di Happy Runner,  Prabir, indiano, categoria SM, dotato di un andatura tutto sua con passi corti e frequenti, evidentemente efficace. Con lui ci alterneremo a lungo in un duro tratto successivo contro vento a tagliare l’aria mentre ripetutamente lo affiancano in bicicletta dei supporter, evidentemente amici, che lo incoraggiano con calore in inglese. Lui ad ogni crocchio della semideserta periferia milanese che attraversiamo fa un caratteristico gesto con entrambe le mani, agitando le palme rivolte verso l’alto a sollecitare approvazione ed entusiasmo. Puntualmente la gente risponde con simpatia al buffo gesticolare esotico con applausi più o meno convinti. Prabir ha un cedimento prima del trentesimo chilometro e lo lascio indietro non senza dispiacere mentre rallenta. Nel finale però sarà lui a risuperare me come un diesel precedendomi all’arrivo di un minuto circa.

Chiude il gruppo  Francesco dell’atletica Verbano, categoria SM40, asciuttissimo e regolarissimo podista di lungo corso. Con Stefano ci siamo scambiati anche qualche parola in occasione di un mio maldestro approccio ad un ristoro in cui ho rinfrescato alcuni addetti rimanendo invece pericolosamente a bocca asciutta. “Hai fatto strike eh!” mi ha detto e mi ha offerto un prezioso sorso residuo del bicchiere che più attentamente aveva prelevato. Francesco staccherà me e Pamir al sopraggiungere di un più veloce riferimento dalle retrovie per finire ottimamente in due ore e cinquantaquattro minuti.

Altra diversa situazione di accompagnamento che ricordo era stata dalle prime battute, forse il secondo chilometro fino a credo il quindicesimo in compagnia di diverso genere di atleta



Alle mie spalle in sincronia di passi Claudia, non una ragazzina, categoria SF35, appartenete ad un gruppo sportivo toscano, l’anno scorso sotto le tre ore e che in partenza aveva colpito con il suo viso il cameramen (minuto 8’20’’) al punto tale da comparire nel frame di copertina del video della trasmissione dell’evento

Io invece, in tutta sincerità sopravanzandola in una curva dopo le prime fasi di assestamento successive alla partenza avevo notato e registrato (come dato freddamente scientifico antropologico, qui lo dico e qui lo nego) da dietro il passo particolare dell’unica donna nel gruppo, dato anche dal bacino femminile da apprezzabile donna mediterranea piuttosto che da esile africana top runner. Mi ha fatto piacere e da stimolo in seguito saperla in scia a dispetto della invadente presenza del suo allenatore che da una bicicletta in più punti gridava suggerimenti e incoraggiamenti forse eccessivamente incalzanti. Claudia, che al passaggio della mezza era undicesima donna assoluta con davanti contante keniane, etiopi e nazionali italiane, si ritirerà prima del trentesimo chilometro, nondimeno lasciando impressione di grande determinazione e forza oltre che di grazia.

E’ assai improbabile che con Mieczyslaw, Prabir, Francesco, Claudia ed i numerosi altri compagni di viaggio con cui abbiamo condiviso anche pochi degli istanti di esperienza tanto intensa, dispersi ognuno per la sua strada dopo all’arrivo in corso Venezia, la foce ove sbocca la maratona di Milano disperdendo nel mare magnum il flusso degli atleti, si ritrovi mai un momento nella vita di tale vicinanza.

Cionondimeno un simpatico incontro fuori programma appena conclusa la maratona mi provava di li a breve che avere percorso questo viaggio aveva creato un eccezionale momento di affinità e non fosse stata mia pura immaginazione aver percepito quella rara comunanze di afflato a partire da elementi di pura fisicità altrimenti insondabili come la  sincronia dei passi e della respirazione.

Successe che mentre recuperavo qualche forza sorseggiando una bottiglietta d’acqua minerale ai margini di un aiuola nei pressi di villa Reale un ragazzo verosimilmente a metà dei vent’anni mi si presenta.

Ero invero in condizioni ai limiti della decenza, pantaloncini, maglietta, piedi scalzi e ancora grondante di sudore mentre lui con un tono estremamente garbato, quasi deferente mi domandò: “do you speak english?”

Lo guardai e dal basso della mia seduta vidi, ancora prima del suo volto, dondolargli al collo la medaglia di finischer della maratona. Come all’esibizione di un segno di appartenenza ad una confraternita massonica gli risposi con tono di apertura che distintamente lo incoraggiò ad andare avanti diversamente che se fossi interrogato dal tipico turista che chiede dove è via della spiga o il Duomo.

Lui, russo di Mosca, si presenta ed espone dapprima l’urgenza di sapere cosa indicare come riferimento ad  amici con cui si deve ritrovare.

Dopo avergli brevemente esposto un paio di opzioni possibili gli domandai se fosse già stato a Milano e se gli fosse piaciuta questa maratona.

C’era con tutta evidenza una grande distanza tra me e lui, di età e culturale in senso lato; cosa potrei mai avere al di fuori della corsa io milanese over cinquanta con un ragazzo moscovita?

In ogni caso sarebbe assolutamente sbagliato pensare che tutto ciò che spontaneamente mi raccontò in seguito fosse una giustificazione al suo approccio diretto e un cortese ricambiare la mia disponibilità, né d’altra parte si può presumere, a rischio di cadere in luoghi comuni che un russo lontano dalla vodka, per quanto giovane, potesse essere così naturalmente espansivo con un assoluto estraneo a distanza di migliaia di chilometri da casa sua.

Sedutosi al mio fianco e accettata mezza mela dalla sacca di generi di conforto a cui stavo attingendo, dopo qualche commento sulla gara appena svolta e la corrispondente manifestazione a Mosca, mi raccontò delle sue frequentazioni a Milano, tra cui anche la nuova ragazza qui per studio ed anch’essa di Mosca e di come si fossero messi assieme dopo avere lasciato altri rispettivi partner, essendo stati amici fin dall’infanzia ed infine entrando nel dettaglio dell’occasione in cui avevano scoperto di essere innamorati l’uno dell’altro da tempo.

Godendomi sia il calo della tensione della gara che patendone i postumi negativi in crescente effetto con il raffreddarsi dei muscoli, lo ascoltavo con sincero piacere, come fosse un mio figlio che mi confidasse suoi profondi sentimenti.

Ero infatti ben consapevole, avendone già vissuto la circostanza in varie occasioni, che si trattava proprio di quegli sfuggenti e preziosi momenti in cui alla fine di un cammino condiviso ci si accomiata, aprendo con fiducia il cuore ai compagni di percorso, appena prima che la comunione di emozioni e sentimenti forti, come l’esaltazione, la determinazione, la fatica, il dolore, la soddisfazione o la delusione appena provati, diventino un ricordo da conservare con pudore o da esporre con ragione di causa verso tutti quelli che non sono stati e non sono tornati in e da quel luogo lontano del viaggio.

Un tiepido sole primaverile accarezza l’aiuola che ci ospita come se fossimo in un salotto, ma è davvero ora di accomiatarsi, docce e ricongiunzioni non possono attendere oltre.

-          dasvidania tovarish

-           

-           non si usa più?

Allora vai in pace amico e goditi la vita come la corsa,  senza fretta di arrivare, la maratona insegna, quello che resta in fondo sono le persone.

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