Maurizio aveva raggiunto me e
Ciro, arrivati a Firenze a metà della mattinata del sabato novembrino viglia della
maratona nel bar in cui stavamo consumando
il pranzo.
Dopo i saluti e convenevoli era
entrato da persona schietta senza giri di parole in argomento quarantadue
chilometri:
-
Voi come state, come pensate di farla?
Al mio turno avevo altrettanto
direttamente sintetizzato quella che di fatto era la mia mancata preparazione:
due mesi sostanzialmente fermo a causa di un infortunio alla gamba sinistra in
un primo tempo denegato e ricusato fino alla zoppia e all’invitabile stop,
interrotto giusto negli ultimi dieci giorni da qualche uscita sperimentale, in
altri tempi classificabile a livello di passeggiata che se da un lato aveva
detto che si, potevo correre senza dolore, dall’altro aveva dato tutta la
misura di cosa significhi ricominciare da principio dopo una prolungata
interruzione forzata.
In effetti ero lì proprio in
ragione dell’aver organizzato il viaggio con Ciro e aver cercato la soluzione
di pernotto condivisa con gli amici, in pratica un week end pensato da tempo in
chiave evento atletico e scaduto per me a due giorni escursionistica.
Maurizio, sentito che pianificavo
di schierarmi comunque al via con l’obiettivo di fare una decina o forse
quindici chilometri, in risposta e guardandomi dritto in faccia, mi aveva
ulteriormente incalzato:
-
Ma tu ti sei mai ritirato da una maratona?
La domanda diretta e a sola
risposta secca indubbiamente scuoteva la prospettiva interiore di me, podista
amatore, dalle logiche non sempre logiche dell’irrazionale maratoneta per pura
passione.
-
No mai, non sono mai stato al collasso, qualche
volta ho stretto i denti e le ho chiuse tutte.
-
Allora la farai tutta anche questa.
Il giorno dopo, nel cuore di
Firenze, nella griglia di partenza in qualche modo privilegiate dei sub tre ore, a dieci minuti prima del via ancora riflettevo incerto sulla profezia di
Maurizio e su quella che avrebbe dovuto essere la mia condotta dopo lo sparo osservando con un certo distacco e rimpianto gli atleti intorno a me che,
riscaldandosi sul posto, cercavano concentrazione e determinazione per lo
sforzo imminente.
Il clima era quello propria di
una giornata di autunno avanzato con un cielo bigio di nuvole sospinte da una
sottile ventilazione, una temperatura piuttosto fresca ma a dispetto
dell’umidità nell’aria senza precipitazioni. Visto che le previsioni
parevano indicare un qualche miglioramento e che la mia corsa sarebbe stata
limitata a non più di un ora a buon ritmo, mi disfavo di maglietta da riciclo e
mantellina di fortuna restando con
pantaloncini, maglietta a maniche corte e canotta, senza guanti, capellino ed
alcuna protezione per le braccia.
Al via mi trovavo subito a ridosso
dei pacer delle tre ore e con loro compitamente stavo ad un ritmo che si
rivelava presto in qualche misura più
elevato rispetto a quello medio necessario a raggiungere l’obiettivo assegnato.
Qualcuno del gruppone formatosi
se ne lamentava contestando una proiezione di tempo alla mezza di un ora e
ventisette minuti, ricevendo la secca spiegazione dai macchinisti del treno che
si stava recuperando un ritardo sul gun time.
A quattro minuti al chilometro o
sotto parecchi in effetti salteranno, pensavo, ma a me che me frega, io devo
fare dieci chilometri o forse quindici …
Intanto il
cielo coperto della partenza iniziava a rilasciare una noiosa pioggerellina accompagnata
da una fresca brezza, che sul lungo Arno mi portava la compagnia di un
frizzante Ciro, rinveniente dalle retrovie di una griglia di partenza più
arretrata della mia.
In spensierata
compagnia si consumavano così allegramente i primi dieci chilometri, lasciando
scivolare via anche qualche scroscio d’acqua via via più intenso, d’altra parte
il quindicesimo chilometro appariva a portata di mano e un obiettivo utile a
rientrare senza danni verso il centro di Firenze.
Salutando Ciro
ed il gruppo tre ore riducevo il gas, mettendomi non solo figurativamente su una corsia
di marcia più lenta per essere sorpassato senza ostacolare il flusso incessante
di maratoneti a quel momento alle mie spalle.
Passato però
il ponte della vittoria, più per inerzia che per effettiva convinzione, capivo
che mi conveniva ulteriormente insistere fino al successivo passaggio al ponte
vecchio, magari rallentando ancora un poco, per riportarmi verso il centro e
piazza san Giovanni dove finalmente defilarmi recuperando agevolmente borsa ed
effetti tra cui un prezioso asciugamani e un caldo pile con cui scaldarmi.
Accettata serenamente
l’idea di vedermi superato da un numero crescente di maratoneti man mano che
diminuivo il ritmo di corsa, grazie
anche all’interruzione della pioggia e a qualche sprazzo di sole, mi godevo il
lungarno in un inedita prospettiva da simil turista al passo di corsa fino alla distanza della mezza maratona e i
paraggi di piazza Santa Croce.
Nell’occasione
mi compiacevo del riscontro cronometrico di un ora e trentacinque minuti nel
percorrere i ventuno chilometri e rotti a dispetto della preparazione
deficitaria e, complice l’ebbrezza data dai calorosi incitamenti di un pubblico
particolarmente denso e vivace in quei passaggi centrali, trovavo utile
allungare ancora un po’ o meglio non trovavo lo spunto per uscire dalla carovana
colorata dei corridori, trovandomi presto verso zone più periferiche della
città con una pioggia in ripresa diversamente dalle previsioni meteorologiche
consultate prima del via.
La curiosità
dell’esploratore probabilmente era in quel momento il motore che alimentava il
proseguimento della mia corsa; la curiosità di vedere cosa c’era in fondo al
rettilineo, dietro la curva e di come mi sarei comportato in uno sforzo per
tanti versi affatto nuovo, un lungo, lunghissimo, in regressione verso bassi
ritmi e privo di alcuna base solida di preparazione.
La gamba
sinistra in ogni modo reggeva e così pure la voglia di correre, non altrettanto il cielo.
Ormai
raggiunte le zone di campo di Marte, piuttosto anonime e spente nel freddo
della domenica mattina e nell’assenza di alcuna presenza di pubblico, come un
ondata di tsunami si abbatteva sulla corsa una massa temporalesca tanto
violenta quanto improvvisa, carica di vento, pioggia e freddo.
Il gioco era
finito, niente più divertimento, niente più spensierato sport, privo di funzione il
tempo segnato dal cronometro al polso, mentre i sensi e l’attenzione si
allertavano con la priorità della sopravvivenza, come se con il pattino preso a noleggio fossi
finito al largo con la tempesta in arrivo, o fossi stato colto da una bufera
attrezzato da picnic nel corso di una gita in montagna.
In
pantaloncini e maglietta, bagnato da capo a piedi, con vento e pioggia battenti
si trattava a quel punto di ritornare alle base, valutando correttamente con
quanta intensità correre per riscaldarmi ed accorciare i tempi, senza però esaurire
le residue forze. In effetti, al di la delle sempre più ampie pozze d’acqua
sulla strada, la sensazione era quella di trovarsi in alto mare alla mercé dei
marosi.
Così, con le
braccia livide, le mani insensibili, le gambe anestetizzate dal freddo e la
faccia sferzata dall’acqua, regolata l’andatura, osservavo la processione dei
maratoneti intorno ed affianco a me procedere silenziosi e rassegnati a tutta
la sofferenza addizionale loro inferta dalla divinità del clima.
Un senso di
ammirazione e rispetto per quella umanità eterogenea sotto prova si generava in
un angolo recondito della mia coscienza, irraggiungibile da pioggia e freddo,
contemporaneamente al dubbio destabilizzante sul senso ultimo di tutti questi
sforzi.
Se ritornare
verso il centro e chiudere il percorso era in effetti una dolorosa necessità
per evitare l’ipotermia, il dubbio su cosa mai ci stessi a fare fradicio avanti
ed indietro per la città rinascimentale, scosso dai brividi e prostrato dalla
fatica, restava irrisolto anche oltre il traguardo, con una medaglia al collo e
a prescindere dal numero dei tanti altri che come me in un modo o nell'altro concludevano la prova, teoricamente corroborando
con la massa una qualche ragione dell’essere partecipi al momento.
Ora, lontano
da Firenze e da quel giorno, con caldi abiti, seduto ed asciutto, resta la
memoria di un percorso e un gesto finito.
Mi ricordo di
quando sul lago dopo i violenti temporali di fine estate si riaprivano le
imposte alle finestre di casa, chiuse mentre gli elementi scuotevano gli alberi
e picchiavano sui tetti come una lavatrice fuori controllo e nel nucleo
protetto della sala si accendevano le candele aspettando come inermi testimoni
del tempo. Alla fine il lago era sempre lì, piatto nella sua superficie
imperturbabile a riflettere il verde diventato scintillante delle montagne
nell’aria tersa, a rappresentare un mondo che è sempre se stesso.
E ancora una
volta riconosco che quello che resta dopo ogni tempesta, come l’essenza di ogni
viaggio, sta nell’aprire una prospettiva di rivelazione, scorcio in cui si può realizzare
alcuna delle dimensioni della vita stessa.
Alla fine la distanza
e il tempo di una maratona sono solo pretesti convenzionali.
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