Pochi metri oltre la banchina il porticciolo finisce dove incomincia l’unica strada che percorre con poche
diramazioni la piccola isola calcarea di San Domino nell’arcipelago delle
tremiti.
Un paio di uscite mattutine in effetti erano
state sufficienti nella prima settimana di soggiorno agostana a mapparne ogni strada e sentiero corribile, selezionando alcuni itinerari alternativi all’ombra dei pini di Aleppo, per comporre l’abituale decina di chilometri giornalieri da fare al risveglio prima di un rinfrescante bagno in
mare e di un abbondante colazione.
Abbigliamento minimale con sole scarpe,
calzini, pantaloncini ed ogni mattina ero pronto ad avviarmi ciondolando fuori
dal villaggio turistico, ancora assopito su per una salitella fino ad un
rettilineo pavimentato su cui dare avvio ad una corsa appesantita dal caldo e dalla
umidità enfatizzati ogni volta dal ragliare strozzato e lamentoso di un somaro
cintato in un vicino campo.
Con il giro pieno dell’isola o
giro lungo, si e no cinque chilometri, arrivavo dapprima ad affacciarmi sul
promontorio di punta Diamante dove assaporare una aperta e benaugurante
panoramica su San Nicola per poi puntare con sterrati e serie di sali e scendi
più o meno accentuati fino all’altro capo dell’isola, sormontando l’alta
falesia dove nidificano le diomedee e, più oltre, attraverso i bruschi
dislivelli che collegano le diverse cale del versante ovest, entrare nel
ristretto abitato formato da due vialetti paralleli affacciati su una
piazzetta.
Qui transitavo facendo attenzione
alle piastrelle spesso bagnate la mattina, avvolto dal profumo delle brioche di
chi fa colazione ai tavolini esterni ai bar ed osserva con curiosa attenzione
l’essere indemoniato che passa a torso nudo grondante come fosse riemerso da un
tuffo in mare. Uno zig zag su una breve discesa riportava poi al viale
asfaltato con cui completare la collana dei tanti terreni eterogenei affrontati
ognuno con diversi ritmi, frequenze, modalità degli appoggi e
atteggiamento di tutto il corpo.
Affatto diverso è l’approccio
richiesto per il tiro con l’arco in cui mi cimento per una settimana fino al
conclusivo torneo: postura e dinamiche vanno consolidate in un movimento ideale
da replicare con costante esecuzione in modo che, stabilita la mira, i colpi si
concentrino il più possibile in un punto, al centro del bersaglio.
Per una settimana mi ero
applicato con impegno e risultati sufficientemente costanti ed ora, con le
scarpe da running piantate a cavallo della linea di tiro ed esaurite promettenti
volè di prova, ho piazzato due frecce su circonferenze da otto e sette punti su
un massimo di dieci, mentre mi si accosta benevolo l’istruttore dandomi un garbato
suggerimento di dettaglio. Proseguendo, come fatto in precedenza decine di
volte, incocco la freccia, inspiro profondamente, tendo l’arco, miro e rilascio.
La freccia finisce per piantarsi
sul paglione ben fuori dal bersaglio, zero punti con questo tiro ma ho ancora
quattro volè da tre tiri per rifarmi.
Di nuovo sulla linea di tiro con
maggiore determinazione e concentrazione, incocco, tendo, tiro, tiro, tiro:
zero – cinque – zero, la peggiore sequenza mai realizzata da che mi esercito.
Cos’ho mangiato, l’arco è guasto
ovvero che interruttore si è spento?
Non demordo, raccolgo le frecce,
rilasso le spalle, ripercorro mentalmente la sequenza dei movimenti e in
particolare quello di rilascio. In teoria tutto facile, almeno per tenere
risultati mediocri rispetto ad esempio se paragonato allo sforzo di una mezza
maratona. Niente acido lattico, niente calo glicemico, niente fatica, solo
ripetere una sequenza di movimenti e in particolare l’apparente banale
movimento di decontrazione per aprire la mano rilasciando la corda.
Ancora frecce a vuoto e ancora e
ancora, ad ogni turno con il supplizio aggiuntivo della procedura di conta in
cui tutti gli arcieri di fronte al rispettivo bersaglio dichiarano ad alta voce
i punteggi mentre vengono constati dal consesso del giudice di gara e da tutti gli
altri contendenti.
Per l’imbarazzo e il disappunto
abbandonerei la competizione in punta di piedi o forse meglio clamorosamente,
fracassando l’arco e urlando la mia frustrazione, ma proseguo invece avvilito e
perdente fino all’ultima freccia come in un calvario punitivo, occasione di ricordarmi
analoghi risultati in labili approcci al golf o al bowling e quindi constatare
che evidentemente qualcosa mi difetta in questo genere di gesti.
Ammettilo: pare tu non ci sia
fatto per questa precisione e forza elegante.
Deponendo l’arma in resa
incondizionata il pensiero si rivolge per contrasto al giro di running prossimo
venturo, dove dare sfogo alla frustrazione dell’insuccesso nel tentativo di
accesso al mondo degli arceri.
Mi prefiguro già domani
mattina, in pantaloncini, madido e chiazzato di polvere sui polpacci e le cosce,
impegnato in tanti gesti improvvisati e selvaggi, mulinando le braccia in
salita, saltando buche e schivando sassi nei sentieri, lasciando andare le
gambe in discesa e sputando polvere e sudore.
E mi immagino ancora più oltre, con
la voglia, per la prima volta davvero da un po’ di tempo a questa parte, di pensare
non in grande ma in lungo, ad un quarantaduemila passi tutti diversi, tutti da
inventare uno a uno ma istintivamente, senza sforzo di concentrazione, tutti generati senza controllo cosciente da
endomorfismi consolidati, mai studiati, mai imparati, come cavalli selvaggi in
fuga.
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